giovedì 8 maggio 2014

C'era una volta la nostra storia.


Fin dall’inizio, dalla primissima assemblea, la natura del comitato “esodati” di Lodi si è distinta per il carattere libero, indipendente, partecipativo. Anche caotico, sempre sorridente, persino nei momenti più cupi e difficili, quando la percezione del futuro era prossima allo zero assoluto. Alla spontaneità della primavera del 2012 è andata via via associandosi la consapevolezza che l’urgenza della rivendicazione di un d/i/r/i/t/t/o acquisito, maturato, consolidato con una vita di lavoro, non era un elemento autosufficiente a spiegare l’ambigua incognita degli “esodati”. Ci voleva, e ci vuole sempre, qualcosa di più per raccontare l’estremo disagio di una realtà negata, l’angoscia di intere famiglie messe davanti a un punto di domanda, la rabbia per l’arroganza e l’iniquità di riforme che hanno cancellato accordi firmati, controfirmati e timbrati da tutte le istituzioni competenti. Hanno spento la luce, e buona notte. Nessuno aveva gli strumenti per capire cosa stava succedendo. Cosa ci stava succedendo. Siamo arrivati, oggi, dopo tre lunghi anni di battaglie, a comprendere, peraltro non a condividere, la riluttanza con cui le stesse istituzioni e la cosiddetta società civile hanno affrontato la scoperta scientifica degli “esodati”. Un fenomeno di ingegneria sociale nato negli stessi meandri di quei laboratori che hanno creato e creano mobilitati, cassintegrati, precari, disoccupati, disperati. La soluzione tecnica, diciamo così, per brevità e per semplificare qualcosa che semplice proprio non è, non poteva venire da lì perché è stato chiaro a tutti, fin dai primissimi giorni del 2012, che la sostanza empirica e casuale che ha creato gli “esodati” era per le sue logiche, economiche e politiche, instabile almeno quanto assurda. Tre anni e tre governi dopo, se è successo qualcosa, se molti degli “esodati” sono riusciti ad andare verso il futuro lo si deve soltanto alla mobilitazione continua, assidua, capillare, in prima persona dei comitati, dei gruppi, dei coordinamenti sorti in tutta Italia. Quante volte in piazza, con il freddo, il gelo, l’afa, la nebbia. Quanti presidi, incontri, assemblee, manifestazioni, viaggi, lettere, lettere, dossier, conteggi, diatribe, discussioni, riunioni, riunioni, riunioni. E’ stato un tempo infinito ed era chiaro, è sempre stato evidente che la storia degli “esodati” non si può spiegare. E’ stata un’interruzione, un segmento tagliato via dalla nostra vita, messo in sospeso, una parentesi aperta e mai chiusa. Troppo complicata. Intricata. Surreale. Improbabile. C’è stato più di un momento che non riuscivamo nemmeno a trovare le parole finché non abbiamo capito che era il nostro turno, ancora uno, per raccontare la nostra storia e, raccontandola, l’abbiamo cambiata. E’ un capitolo dell’Italia così com’è all’inizio del ventunesimo secolo, che bisognava raccontare e soltanto trasformandola in un’altra materia, quella del racconto, dell’idea, della suggestione, diventa comprensibile. Abbiamo usato tutti i mezzi che una moltitudine di amici generosi ci ha ha messo a disposizione: la scrittura, la fotografia, la recitazione, la musica, la testimonianza, la condivisione, la solidarietà. Ogni rivendicazione, ogni soluzioni che abbiamo cercato bussando a migliaia di porte diverse non avrebbe avuto lo stesso valore perché oggi non è solo la soluzione, la rivendicazione degli “esodati”, ma lo è anche di tutti quelli che si sono stati accanto. Ecco, c’era una volta un popolo a cui venne incollato il nome di “esodati”, e poi venne abbandonato al destino, ignoto, in mezzo a un deserto di moduli, circolari, proposte di legge, promesse, quante promesse. Ci siamo guardati in faccia, ben misera compagnia, e avendo capito che avendoci tolto tutto, non potevano toglierci più niente, abbiamo dettato la nostra storia in forme che saranno bizzarre, autonome, spigolose e ruvide, ma che oggi sono i contorni della meta più importante che abbiamo raggiunto insieme all’insindacabile tutela dei nostri diritti. Non auguriamo a nessuno di vivere tre anni come li abbiamo vissuti noi, nemmeno per un giorno, se è per questo, ma vogliamo raccontare la nostra storia per ritrovarci, per festeggiare le soluzioni che abbiamo trovato, per ricordare che per tanti non è finita e perché la nostra storia è la testimonianza che il futuro non è scritto, e non lo lasciamo scrivere a nessuno sulla nostra pelle.

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