Fin
dall’inizio, dalla primissima assemblea, la natura del comitato “esodati” di
Lodi si è distinta per il carattere libero, indipendente, partecipativo. Anche
caotico, sempre sorridente, persino nei momenti più cupi e difficili, quando la
percezione del futuro era prossima allo zero assoluto. Alla spontaneità della
primavera del 2012 è andata via via associandosi la consapevolezza che
l’urgenza della rivendicazione di un d/i/r/i/t/t/o acquisito, maturato,
consolidato con una vita di lavoro, non era un elemento autosufficiente a
spiegare l’ambigua incognita degli “esodati”. Ci voleva, e ci vuole sempre,
qualcosa di più per raccontare l’estremo disagio di una realtà negata,
l’angoscia di intere famiglie messe davanti a un punto di domanda, la rabbia
per l’arroganza e l’iniquità di riforme che hanno cancellato accordi firmati,
controfirmati e timbrati da tutte le istituzioni competenti. Hanno spento la
luce, e buona notte. Nessuno aveva gli strumenti per capire cosa stava
succedendo. Cosa ci stava succedendo. Siamo arrivati, oggi, dopo tre lunghi
anni di battaglie, a comprendere, peraltro non a condividere, la riluttanza con
cui le stesse istituzioni e la cosiddetta società civile hanno affrontato la
scoperta scientifica degli “esodati”. Un fenomeno di ingegneria sociale nato
negli stessi meandri di quei laboratori che hanno creato e creano mobilitati,
cassintegrati, precari, disoccupati, disperati. La soluzione tecnica, diciamo
così, per brevità e per semplificare qualcosa che semplice proprio non è, non
poteva venire da lì perché è stato chiaro a tutti, fin dai primissimi giorni
del 2012, che la sostanza empirica e casuale che ha creato gli “esodati” era
per le sue logiche, economiche e politiche, instabile almeno quanto assurda.
Tre anni e tre governi dopo, se è successo qualcosa, se molti degli “esodati”
sono riusciti ad andare verso il futuro lo si deve soltanto alla mobilitazione
continua, assidua, capillare, in prima persona dei comitati, dei gruppi, dei
coordinamenti sorti in tutta Italia. Quante volte in piazza, con il freddo, il
gelo, l’afa, la nebbia. Quanti presidi, incontri, assemblee, manifestazioni,
viaggi, lettere, lettere, dossier, conteggi, diatribe, discussioni, riunioni,
riunioni, riunioni. E’ stato un tempo infinito ed era chiaro, è sempre stato
evidente che la storia degli “esodati” non si può spiegare. E’ stata
un’interruzione, un segmento tagliato via dalla nostra vita, messo in sospeso,
una parentesi aperta e mai chiusa. Troppo complicata. Intricata. Surreale.
Improbabile. C’è stato più di un momento che non riuscivamo nemmeno a trovare
le parole finché non abbiamo capito che era il nostro turno, ancora uno, per
raccontare la nostra storia e, raccontandola, l’abbiamo cambiata. E’ un
capitolo dell’Italia così com’è all’inizio del ventunesimo secolo, che
bisognava raccontare e soltanto trasformandola in un’altra materia, quella del
racconto, dell’idea, della suggestione, diventa comprensibile. Abbiamo usato
tutti i mezzi che una moltitudine di amici generosi ci ha ha messo a
disposizione: la scrittura, la fotografia, la recitazione, la musica, la
testimonianza, la condivisione, la solidarietà. Ogni rivendicazione, ogni
soluzioni che abbiamo cercato bussando a migliaia di porte diverse non avrebbe
avuto lo stesso valore perché oggi non è solo la soluzione, la rivendicazione
degli “esodati”, ma lo è anche di tutti quelli che si sono stati accanto. Ecco,
c’era una volta un popolo a cui venne incollato il nome di “esodati”, e poi
venne abbandonato al destino, ignoto, in mezzo a un deserto di moduli, circolari,
proposte di legge, promesse, quante promesse. Ci siamo guardati in faccia, ben
misera compagnia, e avendo capito che avendoci tolto tutto, non potevano
toglierci più niente, abbiamo dettato la nostra storia in forme che saranno
bizzarre, autonome, spigolose e ruvide, ma che oggi sono i contorni della meta
più importante che abbiamo raggiunto insieme all’insindacabile tutela dei
nostri diritti. Non auguriamo a nessuno di vivere tre anni come li abbiamo
vissuti noi, nemmeno per un giorno, se è per questo, ma vogliamo raccontare la
nostra storia per ritrovarci, per festeggiare le soluzioni che abbiamo trovato,
per ricordare che per tanti non è finita e perché la nostra storia è la
testimonianza che il futuro non è scritto, e non lo lasciamo scrivere a nessuno
sulla nostra pelle.
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